Senza dubbio è sempre buona regola non parlare, e soprattutto non scrivere – non ci dimentichiamo che scripta manent - di quel che non si sa e non si conosce. Sembra banale e fin troppo sciocco dirlo e sottolinearlo. Ma si sa, capita. Si sente dire qualcosa a proposito di qualcos’altro, ce ne facciamo un’idea e poi quell’idea - che nel frattempo abbiamo fatto fermentare e maturare dentro di noi - diventa una nostra convinzione. E sulla base di quella convinzione, cioè sulla base del niente, siamo pronti perfino a sfidare a duello chi non la condivide, siamo pronti a combattere. Per un qualcosa di sentito dire.
Ebbene, sto per scrivere di fede, di credo, di religione, di Dio, di preti, di credenti, di cattolici, di praticanti, forse anche di bigotti. Sto per infrangere, ahimè, la banale regoletta del capoverso precedente. Sto per scrivere di quel di cui non posso comprendere appieno il significato per il semplice motivo che non credo. Non ho fede. Vorrei, credo, averne a tonnellate. Ma non ne ho. Nemmeno qualche chilo. Nemmeno pochi etti. Zero, la più assoluta forma di ateismo. Il fatto di essere stato battezzato, il fatto di aver fatto la comunione e la cresima, il fatto addirittura di aver indossato la tunichetta bianca e aver prestato la mia figura di giovanissimo adolescente per svariate celebrazioni in veste di chierichetto, ahimè, non serve. Non mi regala accessi e vie preferenziali.
Si da il caso che da qualche tempo, un paio d’anni forse, una persona a me molto cara, che buon per lei ha fede, Fede nel suo caso, mi abbia parlato più di una volta di un tale Don Qualcosa che nella chiesa del Tal Posto celebra messe un po’ fuori dal comune modo di pensare. O meglio: forse celebra le messe che la maggior parte dei preti celebra nel 2012 e non le messe un po’ spente che io mi ricordo nel 1982, trent’anni fa, quando appunto seguivo il prete sorreggendo il calice del vino insieme ai miei compagni chierichetti. Ebbene, mi si racconta che queste funzioni siano comunque forse un po’ più particolari anche rapportate alle messe del 2012. Si dice che abbia i “doni”, quel tal Don Qualcosa, e che celebra in una piccola chiesetta di campagna del Tal Posto. Si dice che guarisca, il Don Qualcosa. Si racconta – e il lettore vorrà credermi sulla parola se premetto che tutto quel che sto mettendo per scritto non vuol assolutamente essere una mancanza di rispetto verso chicchessia – insomma si racconta che Don Qualcosa veda quel che dentro di te non va. Si dice che, imponendo le mani e recitando qualche formuletta, riesca a tirar via quel che appunto non dovrebbe essere dentro di te. E ribadisco che senza offesa alcuna, questa è l’immagine fotografica che mi si stampa in mente, da non credente, quando mi si raccontano certi episodi.
Mi spiace molto, da sempre, sentir parlare di Tizi e Caii vari che, con un pretesto qualsiasi, rubano soldi e tempo, ma soprattutto speranze, a chi ha veramente bisogno di aiuto. Sarei, e sono, molto medievale nella punizione che infliggerei a questi Tizi e questi Caii. Poi ci sono quelli che, credo io, dietro il paravento del “lasci pure nell’apposita cassettina quel che può, quel che ha in tasca, anche niente” si comportano nella solita maniera ma, sempre dico io, hanno almeno il – sebbene estremamente malcelato – buongusto di non pretendere e chiedere il pagamento per la guarig…ehm.. prestazione. Loro per primi, credo, i ciarlatani stessi, sono convinti per una qualche forma di mania che li affligge (e per la quale dovrebbero esser loro i primi a ricorrere all’aiuto vero di un professionista serio e qualificato) di avere dei poteri sopra natura che consentano loro di vedere e curare i mali del mondo. Contenti loro, contenti i loro seguaci, festa finita.
Certo che sentir parlare invece di preti che si comportano nello stesso modo, beh, se permettete, mi lascia molto perplesso. Perplesso, costernato, basito.
“Ma dai, che ti costa, vieni” – mi dice la persona a me molto cara – “vieni almeno una volta, mi accompagni, non ti può certo far male”. Ha ragione, non mi costa niente, se non il tempo. Ma di quello, almeno in questo periodo, ne ho da buttar via. E non può farmi male, ha ragione.
In realtà ho un po’ paura della fede. Sono terribilmente spaventato dall’idea di riconoscere, chissà quando e perché, la chiamata. Io, ateo e razionale, impaurito da una potenziale chiamata celeste. Ebbene si, ognuno ha le sue, io ho la mia. So bene, lo sento e ne sono convinto, che solo un vero ateo potrebbe darsi completamente alla fede, alla preghiera, alla meditazione, alla vita monastica addirittura. Non certo quei bigotti ingioiellati della “domenica alle undici, allora…. ci troviamo li”.
Fatto sta che quei racconti ascoltati, quelle cose lette su uno dei libri di Don Qualcosa e le testimonianze a proposito di miracolose guarigioni, mi hanno incuriosito a tal punto che ho accettato e sono andato nella chiesetta del Tal Posto. Il posto, di per se, non ha niente di speciale. Una chiesetta vecchiotta, piccolina, immersa nella bellissima campagna toscana. Sono andato e, come mi succede in quelle rare occasioni in cui mi avvicino fisicamente ai luoghi di preghiera, ho messo da parte il mio ateismo. Benché abbia una mia idea molto precisa in merito, rimane comunque il fatto che non sopporto l’idea di entrare in casa di qualcuno senza rispetto.
E’ una domenica e arriviamo presto, intorno alle 9, perché da prassi c’è una lista di poche persone che avranno la fortuna di sedersi al cospetto di Don Qualcosa in attesa della grazia. In effetti è un po’ una lista della speranza: tu arrivi, segni il nome e se sei fra i primi “tot” avrai il permesso di ricevere una preghiera personale. Non siamo fortunati, la lista è piena. Con me e la persona a me cara c’è una terza persona che ha bisogno risolvere un problema di salute della cui origine ancora non siamo venuti a conoscenza.
Speravo anche, senza averlo detto a chi era con me, che fosse una di quelle giornate in cui, come mi si raccontava, il Don individua in mezzo alla folla degli astanti qualcuno a cui comunicare, sempre secondo un suo modo particolare, l’annunciazione della grazia. Non sono mai stato presente in quelle occasioni, ma mi si dice che il Don, per livelli di descrizione sempre più precisa, sia in grado di evocare un certo malessere, una qualche pena, qualcosa che non va insomma, fin tanto che qualcuno dal mezzo della folla dei fedeli si alza in piedi – riconoscendosi nella descrizione – e il Don Qualcosa gli comunica la sua prossima guarigione. Pare, e ribadisco pare, che in effetti molti dei graziati siano effettivamente prodigiosamente guariti. Vorrei dire miracolosamente, ma mi sembra prestino. Zoppi che cammineranno, mali incurabili che si dissolveranno nel nulla, disoccupati che di li a poco vedranno il loro sogno professionale avverarsi, sfracellati e incidentati che non avranno postumi fisici ma solo brutti ricordi di quella curva a 180 all’ora… ecco.. cosucce così. Ebbene, quella, come ho anticipato, non era una giornata di grazie e guarigioni. Peccato.
Ma non disperare, lettore. In realtà, seppur non paragonabile a nessuno dei suddetti prodigi, qualcosa è successo quella domenica.
Il Don, ad un certo punto della funzione, si è incamminato col suo codazzo di guardaspalle in mezzo ai fedeli impugnando l’ostensorio. Un po’ come un minuscolo Papa in una minuscola San Pietro. O un piccolo Padre Pio in una piccola San Giovanni Rotondo. Dunque, se le parole - ma soprattutto le convinzioni personali - hanno un senso, io non sarei dovuto essere li. Che ci fa un ateo in una chiesa, circondato da fedeli che, magari per colpa mia, non hanno manco trovato posto a sedere? Ma c’ero ed ero, lo ribadisco, molto rispettoso del momento e della situazione a cui stavo partecipando. Gente, in quella piccola chiesa, che aveva fatto anche un paio d’ore di macchina per arrivare al cospetto del Don Qualcosa e aspirare ad un suo gesto, una sua carezza, un suo prodigio. Tutta gente che ne ha bisogno, per sé o per altri. Gente con in mano la foto di qualcuno. Emissari, li chiamerei. Me li immagino questi emissari. Magari, in qualche caso, ho pure idea che possano essere più atei e razionali di me, chissà. Me li immagino comunque da qualche parte, nelle loro case, negli ospedali, nei posti in cui si soffre, farsi forza e dire ai loro cari, quasi in ultima istanza… “ok, datemi una foto, vado io da Don Qualcosa e vediamo che succede. Voi state qui”.
Io, con chi avevo accompagnato, grazie alla levataccia del mattino, ero in seconda fila, seduto su una panca sul lato destro rispetto all’altare. Il Don ed il codazzo di body-guards inizia il suo cammino tra i fedeli. L’ostensorio, dunque l’esposizione del corpo di Cristo - parlo per i pochi ignoranti come me – è un momento di altissima solennità per i fedeli. Per me, un bastone con una teca dorata sulla sommità contenente la grande ostia che i preti mangiano al momento dell’ Eucarestia. Fatto sta che io sono rapito dal quel momento. Lo osservo, il Don. Osservo i fedeli. Mi stupisco dal vedere chi, più o meno accanto a me, comincia a soffocare il pianto. Occhi lucidi e gonfi di lacrime dappertutto. E quello stava solo iniziando il suo cammino tra la folla. Qualcuno prega. Qualcuno osserva la scena in totale e intima serenità. Io non sono da meno. Osservo, ma non con l’occhio dell’osservatore critico. Osservo anche io rapito dal momento. C’era energia, lo confesso. Io non la sento l’energia di solito. Ma li ce n’era parecchia. Il Don, scendendo dall’altare, si dirige alla propria sinistra, venendo dunque dalla nostra parte. Si avvicina a qualcuno in prima fila, davanti a me: gli si ferma davanti, vedo le sue labbra che recitano un padrenostro qualsiasi, in continuazione. Nessun tipo di contatto fisico con il qualcuno li davanti, ma il qualcuno si commuove, come se il Don fosse un’entità soprannaturale. Poi il Don prosegue, continuando a recitare incessantemente a labbra serrate quel padrenostro qualsiasi. Si avvicina a una persona nella fila centrale, alla mia sinistra: una vecchina coi capelli bianchissimi raccolti sul dietro della nuca in una elegantissima crocchia come usavano 50 anni fa. Un viso molto dolce che avevo notato al momento del “scambiatevi un segno di pace” perché la nonnina si era voltata sorridente verso di me e, raggiungendomi, mi aveva teso la mano che avevo preso ricambiando il gesto e stringendola con affetto. La vecchina, comunque, lo guarda e pure lei recita quel padrenostro qualsiasi a occhi chiusi, all’unisono col Don. Nessun contatto tra i due. La gente, come quando passa il Papa, tenta di pararsi innanzi, per toccare, essere toccata. Ecco perché il Don ha quei due o tre guardaspalle che lo precedono e lo seguono. D’improvviso, eccomelo davanti. Ha oltrepassato di parecchio la comune distanza di rispetto intima. Sarà a 30 centimetri da me. Non mi infastidisce, figuriamoci. Tutti mi guardano. Lo vedo e lo sento. Qualche centinaio di occhi che mi osservano. Io non so che dire, comunque, non so come comportarmi. Non ho idea di quale fosse quel padrenostro che tutti recitavano insieme al Don. Subisco, direi così, la sua presenza. Mi guarda, ma in effetti ha gli occhi socchiusi. L’ostensorio è li davanti a me, con quella vetrinetta in cima. Io guardo l’ostia, il corpo di Cristo. Forse ho iniziato - senza rendermene conto – a recitare un Padre Nostro vero. Poi alza una mano e me la posa sulla fronte. Continuo a sentirmi gli occhi di tutti addosso. Mi guardano come se fossi un fortunato, un prescelto. Una mano calda. Morbida, asciutta e calda. La appoggia alla mia fronte e la tiene li… uno.. due… tre… quattro… non so quanto ce l’ha tenuta. Bisbigliava. Pregava. Intercedeva, forse. E io ero imbarazzato per un verso ma dall’altro gioivo in segreto perché quella mano era sulla mia fronte. Perché me? I pensieri mi si ingorgavano in testa e l’unica conclusione a cui arrivavo era che il Don sentiva che ne avevo bisogno. Roba da toccar ferro, se ci pensate bene. Ma rimanevo li. Sentivo il palmo della sua mano e volevo che non la togliesse. Io, ateo, curioso di vedere i prodigi, un San Tommaso dei nostri giorni, mi viene da dire. Eccomi li, con gli occhi gonfi di lacrime. Il Don stacca la mano e gesticola un segno della croce a mezz’aria. Me lo faccio pure io, non si sa mai. Il Don prosegue il suo piccolo pellegrinaggio tra i fedeli incamminandosi verso il fondo della chiesa. La mano l’ha appoggiata a non più di altre sei, sette, otto persone al massimo. Ecco perché mi guardavano tutti come fossi un prescelto.
Alle mie spalle, nella fila di centro, a metà chiesa, una coppia mia coetanea. Lui magrissimo, occhialini, capelli corti. Lei bassina, biondina. In estasi, entrambi. Piangevano, e manco li aveva sfiorati. Piangevano, e manco gli si era avvicinato anzi, li aveva sorpassati. Sembravano in cerca di un miracolo. Ho pensato che forse davvero ne avevano bisogno, che ne so: un figlio piccolo che sta molto male, una madre in fin di vita, un fratello in coma irreversibile. Mi si sono disegnate davanti scene apocalittiche nella famiglia dei due. Ho pensato che quel loro pianto fosse di vera disperazione. Per un attimo, lo giuro, per un attimo ho pregato. Ho pregato che quel mio contatto col Don, se mai avesse dovuto avere un qualsivoglia effetto benefico su di me, che arrivasse invece a quel giovane magro e con gli occhialini o alla persona per cui lui era li a pregare. Insomma, gli cedevo gratuitamente il bene in cui io tutto sommato non credevo e che invece lui aspettava di ricevere. Ne avrà più bisogno, ho pensato, meglio a lui che a me. Uscendo dalla chiesa, zitto zitto, mi sono avvicinato a quel giovane. Ho trovato il modo di sfiorarlo con una mano. E con quel contatto ho suggellato il passaggio fisico di ogni bene che quel Don, forse, mi aveva mandato.
Questo, forse, pur nella sua pochezza, pur nella sua assoluta e totale mancanza di significato per i più, per i molti forse, è stato uno dei pochi gesti di altruismo profondo e vero che io abbia mai avuto negli ultimi tempi. Regalare quel contatto con il Don a chi ne aveva più bisogno. Che qual piccolo gesto, quel contatto, abbia già fatto il suo effetto? Lo spero.
Io, nel frattempo, ho perso il lavoro.
ps.
Il Don Qualcosa, ovviamente, ha un nome. Don Roberto Peruzzi.
La chiesetta del Tal Posto è la Chiesa di Sant’Ilario a Montereggi, bellissimo posto vicino a Fiesole, Firenze.
gentile Signor Luigi,
RispondiEliminami piace molto come scrive e mi riconosco profondamente nei contenuti che esprime. Pensi che malgrado non sia credente anche io oggi ho inoltrato una richiesta di preghiera al Suo Don... Non si sa mai...
Ho letto anche il suo post del 2014, dopo il quale si è richiuso nel silenzio; spero che abbia saputo bfare i conti con la sua verità, glielo auguro vivamente. Si ricordi che la verità è la cosa più importante; molti, moltissimi sanno mentire, ma pochi, pochissimi - i MIGLIORI - sanno dire e reggere la verità. Credo che lei faccia parte di quella schiera. Per questo non si deve chiudere nel silenzio, ma deve dar voce alla Sua rara sensibilità. Mi scusi l'intromissione...
A rileggerla!