martedì 13 ottobre 2015

I vegetariani mi stanno sul cazzo (il cetriolo e la sua anima)

Non so se metterlo come incipit a quello che sto per scrivere, o lasciare a chi legge l’onere di farsene una ragione. Ora ci penso.
C’ho pensato, poco, e ho deciso: lo metto sia come incipit che come sommessa esortazione finale. Dunque, l’incipit di queste quattro righe è:  i vegetariani mi stanno sul cazzo. Non solo: più innalzano la loro asticella inventandosi nuove forme di alimentazione ancor più castranti, più mi stanno sul cazzo.
Certo non posso fare una scelta tout court, e ho certezza – leggi speranza – che ce ne siano anche di simpatici e risolti: ma quelli che ho incrociato, per una ragione o per l’altra, mi hanno lasciato dentro questa forma di oggettiva sensazione. Mi commuove l’impegno che mettono nel voler star li a dirmi quanto sia dura la vita di un maiale d'allevamento o quanto soffre un vitello che viene ammazzato affinché io possa mangiare la sua carne; o volermi propinare la teoria per cui una fetta di carne ai ferri ci mette non so quanti giorni per essere digerita e restituita alla natura in forma cilindrica dentro al cesso di casa e quanta sporcizia lasci nel mio intestino durante quel vorticoso percorso; oppure tentare di illustrarmi quanti milioni di litri d'acqua servono per allevare un vitello, e dunque strizzarmi l’occhio compiacente affinché io possa riconquistare la ragione e redimermi, dandomi a carote, melanzane et simili.   Mi fai tristezza, Vegetariano, vedendoti pescare dal banco del supermercato quegli hamburger a base di non so che, che hanno la vegetariana sfrontatezza di assomigliare a veri hamburger. E mi tocco le palle quando mi sento dire che mi verrà un cancro all’intestino per questo o quest’altro motivo “scientificamente provato” solo perché mi piace mangiare bistecche. Ma ti anticipo, Vegetariano, che potrebbe essere invece un cancro ai polmoni, visto che sono pure un fumatore. O un ictus. Oppure ti andrò in culo, Vegetariano, sopravvivendoti (la peferisco).
Ora, sia chiaro, non è che il pensiero dei vegetariani mi impedisca di dormire sonni tranquilli o mi renda più stronzo di quanto già non sia naturalmente. No, per niente. Dormo e sono quel che sono. Il punto è che non ne faccio una questione di te, Vegetariano, che vuoi raccontare a me, onnivoro con spiccata e goduriosa tendenza alla carnivorità,  del perché e del percome hai scelto d’improvviso di abbandonare le costate e gli arrosti: a me non me ne frega una sega. Anzi, tutto sommato forse ne sono pure incuriosito, e dunque, si, raccontami del tuo percorso. Non aspettarti però di raccontarmi qualcosa che già non mi sia stato raccontato: mi dirai - con quel velo di tristezza misto a celata euforia - che sei stato carnivoro, e che la carne ti piaceva davvero tanto. Mi dirai che lo eri, malgrado tutto, perché quando tornavi da scuola la tua mamma ti cucinava le fettine impanate e le polpettine al sugo. Mi dirai che non avevi ancora acquisito quella necessaria maturità che ti ha spinto a cambiare direzione e dunque abbandonare l'idea di un ottimo panino con la mortadella. Mi dirai che un bel giorno, chissà perché, ti sei accorto che la tua digestione era davvero lenta e tu pure, chissà perché, non eri così scattante come al solito. Mi dirai che adesso fai la maratona di New York e che prima manco salivi le scale di casa. Mi dirai che da quando hai abbandontato aragoste e salsicce non t'è mai venuto nemmeno il raffreddore. Mi dirai pure che c’hai l’uccello più duro. Mi dirai che anche Isaac Newton, Kafka, Einstein e Tolstoj erano vegetariani, e con loro altri nomi illustri. Mi dirai che l’idea di strappare pezzi di ciccia ad un cadavere (e la parola cadavere la dirai sottolineandola con tono da funerale) ti fa orrore (e la parola orrore verrà invece scandita in sillabe, raddoppiando la già raddoppiata “erre”).  Tu, caro il mio Vegetariano, potrai raccontarmi di tutto. E io sarò sinceramente interessato a quello che mi dirai. E potrà pur esser vero che mi verrà un cancro per colpa delle bistecche e dei salumi che mi sono mangiato nella vita e che in effetti non mi iscriverò mai alla maratona di New York (per l’uccello duro, invece, t’assicuro, che ad oggi, 13 ottobre 2015, non ho davvero problemi). E a prescindere da cosa tu mi vorrai raccontare, la mia idea di te rimarrà la solita: mi stai sul cazzo. Mi stai sul cazzo proprio perché ad ogni occasione buona hai sempre voglia e necessità di giustificare la tua scelta, che io tra l’altro rispetto fino in fondo, con una sciorinatura di questo e quello e una serie infinita di pseudo minchiate e frasi fatte delle quali a me, sinceramente, non frega davvero una sega.  Mi interessa il tuo percorso, ma non me ne frega una sega del tuo giustificarti. E’ questo il punto. Io non ho necessità di giustificare il fatto che amo una bistecca al sangue da un chilo e due minimo, o una tartare fatta come dio comanda, o un panino col lampredotto. E ti dirò di più, caro il mio Vegetariano: non ho nemmeno bisogno di giustificarmi con qualcuno quando ho voglia di una zuppa di cavolo nero, un minestrone fatto bene o una torta di frutta. Non ti devo niente, questo è il punto. Mangio come, quanto e cosa voglio. Sei tu che hai deciso di mettere le palle sul tavolo, e martellartele a colpi di cetriolo. E il cetriolo, ti avverto, ha una propria particolare forma di intelligenza:  si accorge sempre quando una decisione così importante è frutto di un percorso interiore onesto o, invece,  nasce sull’onda di una moda passeggera o, peggio mi sento, al solo fine di poter scopare una bonazza (lei, magari, addirittura vegana): il cetriolo, in questo ultimo caso, mentre ti stai smartellando le palle, saprà liberarsi con astuzia della tua presa e sfuggirti di mano. Lo vedrai come al rallentatore, a mezz'aria, e dopo una serie inaudita di giravolte e piroette saprà individuare quale sia e dove sia l’orifizio più appropriato per farsi giustizia. E lo farà, stanne certo. I cetrioli, come i vitelli, hanno un'anima. 

lunedì 11 agosto 2014

Lo specchio (e tutto quello che ne consegue...)


Succede a tutti, spero. Succede, e mentre succede, non ti poni il vero senso del perché stia succedendo. Succede e basta.
Succede che l’amore, parlo del sentimento, parlo di quella chimera della quale da sempre si sente parlare, finisca. A volte è un lungo declino, sfiancante. A volte è un qualcosa di molto rapido e violento. E’ il rendersi conto che quello che si considerava amore, a tutti gli effetti, amore non era. Succede che eri talmente convinto che lo fosse, che quando ti accorgi che tutto era, tranne amore, allora ti perplimi. E allora c’è il solito migliaio di domande, giusto per non farsi mancare niente. E il solito migliaio di risposte. Ti racconti di tutto e ti convinci del contrario. Ti fai domande ovunque, qualsiasi cosa tu stia facendo. Con chiunque tu sia, quel meccanismo di domande e risposte è sempre in moto. E no, la conclusione è che non arrivi a capo di niente. Perché a nessuno piace esser sconfitto. Perdipiù, se la sciabolata finale, quella mortale, te la sei data da solo.
Ti giustifichi verso l’ingiustificabile, e ti condanni per colpe inesistenti. Ti schiaffeggi verbalmente, soprattutto se sai che nel bilancio bonus-malus di quella che è una fine, il tuo concorso di colpa ha il peso maggiore.
Poi d’improvviso, succede sempre così, in mezzo a quel migliaio di domande e risposte, ti rallegri: sai che quella fine, coincide, o si è pure addirittura parzialmente sovrapposta, ad un nuovo inizio. Dunque rivedi ancora una volta quel concorso di colpa, e le tue colpe si innalzano vertiginosamente. E la stima verso te stesso scema di pari passo.  
Un amore, quello che sia, quel rapporto, quel sentimento, non finisce mai per congiunture astrali incomprensibili. Quell’amore, se finisce, finisce perché ne arriva uno nuovo. E più forte. E ti dici cazzo, questo si che è Amore. Questa è la Donna che è tagliata per me. Ma dove cazzo eri, diobono, dove sei stata che non ti vedevo. Lei era li. Tu eri li. L’altra era li. Tutti erano li. Ma nessuno vedeva nessuno.
Capita anche che quel qualcosa che finisce sia stato un qualcosa di molto importante, a prescindere da tutto. Capita che tu, nonostante tutto, sia pure una brava persona e tu ti senta comunque molto legato alla persona a cui stai per dire, guarda, ho idea che questa nostra storia non stia funzionando per come dovrebbe. Ho idea che forse, anzi, necessariamente, tu ed io, i nostri progetti, i nostri sogni, beh.. li abbiamo buttati nel cesso. E io, credo, sono quello che ha la catenella in mano. E la sto tirando.
Non è facile comunicare, talvolta. Anzi, non è facile comunicare in generale. Ma in certe situazioni è davvero complicato. Perché è più semplice riflettere, dire… ma che fai.. lasci tutto? Perdi tutto? E se fosse solo un abbaglio? E se per tutti, e dico tutti, l’amore fosse quello che è per noi in questo momento? Se fosse così, vorrebbe dire che è un circolo vizioso e solo chi si accontenta, resiste. Non gode, certo, ma arriva in fondo.
E allora è facile cadere nell’ipocrisia e raccontarsi stronzate, convincendosi che siano le risposte giuste e coerenti. Quel migliaio di domande ha in cambio un migliaio di risposte. False. E probabilmente sono tutte falsate dalle emozioni, dai ricordi, dal buonismo, e da altro.
Dunque, arriviamo al punto. Funziona così: devi aspettare di esser solo in casa. Ti fai una doccia, ascolti musica buona. Fai come se niente fosse. Come se quella fosse una delle innumerevoli docce che hai fatto nella vita recente. Ma c’è qualcosa di diverso rispetto alle altre. Quella volta il rito non si conclude con uno sputo nel cesso, o un dito nel naso a recuperare l'ultimo fastidio. Il rito, quella volta, si conclude con LA domanda. Ed è una, una soltanto, la domanda che ti devi fare. Schietta, senza ambiguità. E’ una domanda che ha una sola possibile risposta, occhio: un Si o un No. Non è difficile trovarla, la domanda. Il difficile è rispondere. Difficile perché dopo quella doccia, con quel solito asciugamano legato ai fianchi, o nudo come un verme, vai al lavandino, come sempre. Ti prepari lo spazzolino da denti, lo cospargi di dentifricio e inizi a spazzolare. Improvvisamente, però, dalla posizione abbassata sul lavabo, ti alzi. E ti guardi, fiero e con sguardo da sfida. Ti guardi allo specchio. Dritto, fiero, orgoglioso. Occhi negli occhi. Tu e Lui. Siete due pistoleri, uno di fronte all’altro. Uno dei due, si sa, cadrà e verrà seppellito dopo poco. Non ci sono spettatori a disturbare quel momento. C'è un Te e c'è un Lui. Ma nello stesso momento quel Lui è quel Te. E’ il momento. Devi pronunciare a voce alta quelle poche parole della domanda che ti sei preparato. Niente di complicato, sarebbe assurdo. Qualche parola è sufficiente. E sono quelle parole che avresti potuto farti tempo prima. Hai aspettato, forse troppo, ma va bene lo stesso. Ci sei, occhi negli occhi, e nessuno dei due abbassa lo sguardo. Non ci sono campane che rintoccano il mezzogiorno, ma puoi far finta di sentirle. Fatti quella cazzo di domanda, è il momento. Ma soprattutto, datti quella risposta. E rimarrà in piedi solo il migliore. E in questi casi, si sa, il migliore è quello che ha saputo dire la verità.
La verità, caro pistolero, è che non ti puoi costringere a far finta di essere altro. E la verità, come spesso succede, spara il primo colpo. E vince.  

venerdì 15 giugno 2012

il Don Qualcosa e la chiesetta del Tal Posto

   Senza dubbio è sempre buona regola non parlare, e soprattutto non scrivere – non ci dimentichiamo che scripta manent - di quel che non si sa e non si conosce. Sembra banale e fin troppo sciocco dirlo e sottolinearlo. Ma si sa, capita. Si sente dire qualcosa a proposito di qualcos’altro, ce ne facciamo un’idea e poi quell’idea - che nel frattempo abbiamo fatto fermentare e maturare dentro di noi - diventa una nostra convinzione. E sulla base di quella convinzione, cioè sulla base del niente, siamo pronti perfino a sfidare a duello chi non la condivide, siamo pronti a combattere. Per un qualcosa di sentito dire.
Ebbene, sto per scrivere di fede, di credo, di religione, di Dio, di preti, di credenti, di cattolici, di praticanti, forse anche di bigotti. Sto per infrangere, ahimè, la banale regoletta del capoverso precedente. Sto per scrivere di quel di cui non posso comprendere appieno il significato per il semplice motivo che non credo. Non ho fede. Vorrei, credo, averne a tonnellate. Ma non ne ho. Nemmeno qualche chilo. Nemmeno pochi etti. Zero, la più assoluta forma di ateismo. Il fatto di essere stato battezzato, il fatto di aver fatto la comunione e la cresima, il fatto addirittura di aver indossato la tunichetta bianca e aver prestato la mia figura di giovanissimo adolescente per svariate celebrazioni in veste di chierichetto, ahimè, non serve. Non mi regala accessi e vie preferenziali.
   Si da il caso che da qualche tempo, un paio d’anni forse, una persona a me molto cara, che buon per lei ha fede, Fede nel suo caso, mi abbia parlato più di una volta di un tale Don Qualcosa che nella chiesa del Tal Posto celebra messe un po’ fuori dal comune modo di pensare. O meglio: forse celebra le messe che la maggior parte dei preti celebra nel 2012 e non le messe un po’ spente che io mi ricordo nel 1982, trent’anni fa, quando appunto seguivo il prete sorreggendo il calice del vino insieme ai miei compagni chierichetti. Ebbene, mi si racconta che queste funzioni siano comunque forse un po’ più particolari anche rapportate alle messe del 2012. Si dice che abbia i “doni”, quel tal Don Qualcosa, e che celebra in una piccola chiesetta di campagna del Tal Posto. Si dice che guarisca, il Don Qualcosa. Si racconta – e il lettore vorrà credermi sulla parola se premetto che tutto quel che sto mettendo per scritto non vuol assolutamente essere una mancanza di rispetto verso chicchessia – insomma si racconta che Don Qualcosa veda quel che dentro di te non va. Si dice che, imponendo le mani e recitando qualche formuletta, riesca a tirar via quel che appunto non dovrebbe essere dentro di te. E ribadisco che senza offesa alcuna, questa è l’immagine fotografica che mi si stampa in mente, da non credente, quando mi si raccontano certi episodi.
   Mi spiace molto, da sempre, sentir parlare di Tizi e Caii vari che, con un pretesto qualsiasi, rubano soldi e tempo, ma soprattutto speranze, a chi ha veramente bisogno di aiuto. Sarei, e sono, molto medievale nella punizione che infliggerei a questi Tizi e questi Caii. Poi ci sono quelli che, credo io, dietro il paravento del “lasci pure nell’apposita cassettina quel che può, quel che ha in tasca, anche niente” si comportano nella solita maniera ma, sempre dico io, hanno almeno il – sebbene estremamente malcelato – buongusto di non pretendere e chiedere il pagamento per la guarig…ehm.. prestazione. Loro per primi, credo, i ciarlatani stessi, sono convinti per una qualche forma di mania che li affligge (e per la quale dovrebbero esser loro i primi a ricorrere all’aiuto vero di un professionista serio e qualificato) di avere dei poteri sopra natura che consentano loro di vedere e curare i mali del mondo. Contenti loro, contenti i loro seguaci, festa finita.
Certo che sentir parlare invece di preti che si comportano nello stesso modo, beh, se permettete, mi lascia molto perplesso. Perplesso, costernato, basito.
   “Ma dai, che ti costa, vieni” – mi dice la persona a me molto cara – “vieni almeno una volta, mi accompagni, non ti può certo far male”. Ha ragione, non mi costa niente, se non il tempo. Ma di quello, almeno in questo periodo, ne ho da buttar via. E non può farmi male, ha ragione.
   In realtà ho un po’ paura della fede. Sono terribilmente spaventato dall’idea di riconoscere, chissà quando e perché, la chiamata. Io, ateo e razionale, impaurito da una potenziale chiamata celeste. Ebbene si, ognuno ha le sue, io ho la mia. So bene, lo sento e ne sono convinto, che solo un vero ateo potrebbe darsi completamente alla fede, alla preghiera, alla meditazione, alla vita monastica addirittura. Non certo quei bigotti ingioiellati della “domenica alle undici, allora…. ci troviamo li”.
Fatto sta che quei racconti ascoltati, quelle cose lette su uno dei libri di Don Qualcosa e le testimonianze a proposito di miracolose guarigioni, mi hanno incuriosito a tal punto che ho accettato e sono andato nella chiesetta del Tal Posto. Il posto, di per se, non ha niente di speciale. Una chiesetta vecchiotta, piccolina, immersa nella bellissima campagna toscana. Sono andato e, come mi succede in quelle rare occasioni in cui mi avvicino fisicamente ai luoghi di preghiera, ho messo da parte il mio ateismo. Benché abbia una mia idea molto precisa in merito, rimane comunque il fatto che non sopporto l’idea di entrare in casa di qualcuno senza rispetto.
   E’ una domenica e arriviamo presto, intorno alle 9, perché da prassi c’è una lista di poche persone che avranno la fortuna di sedersi al cospetto di Don Qualcosa in attesa della grazia. In effetti è un po’ una lista della speranza: tu arrivi, segni il nome e se sei fra i primi “tot” avrai il permesso di ricevere una preghiera personale. Non siamo fortunati, la lista è piena. Con me e la persona a me cara c’è una terza persona che ha bisogno risolvere un problema di salute della cui origine ancora non siamo venuti a conoscenza.
   Speravo anche, senza averlo detto a chi era con me, che fosse una di quelle giornate in cui, come mi si raccontava, il Don individua in mezzo alla folla degli astanti qualcuno a cui comunicare, sempre secondo un suo modo particolare, l’annunciazione della grazia. Non sono mai stato presente in quelle occasioni, ma mi si dice che il Don, per livelli di descrizione sempre più precisa, sia in grado di evocare un certo malessere, una qualche pena, qualcosa che non va insomma, fin tanto che qualcuno dal mezzo della folla dei fedeli si alza in piedi – riconoscendosi nella descrizione – e il Don Qualcosa gli comunica la sua prossima guarigione. Pare, e ribadisco pare, che in effetti molti dei graziati siano effettivamente prodigiosamente guariti. Vorrei dire miracolosamente, ma mi sembra prestino. Zoppi che cammineranno, mali incurabili che si dissolveranno nel nulla, disoccupati che di li a poco vedranno il loro sogno professionale avverarsi, sfracellati e incidentati che non avranno postumi fisici ma solo brutti ricordi di quella curva a 180 all’ora… ecco.. cosucce così. Ebbene, quella, come ho anticipato, non era una giornata di grazie e guarigioni. Peccato.
   Ma non disperare, lettore. In realtà, seppur non paragonabile a nessuno dei suddetti prodigi, qualcosa è successo quella domenica.
   Il Don, ad un certo punto della funzione, si è incamminato col suo codazzo di guardaspalle in mezzo ai fedeli impugnando l’ostensorio. Un po’ come un minuscolo Papa in una minuscola San Pietro. O un piccolo Padre Pio in una piccola San Giovanni Rotondo. Dunque, se le parole - ma soprattutto le convinzioni personali - hanno un senso, io non sarei dovuto essere li. Che ci fa un ateo in una chiesa, circondato da fedeli che, magari per colpa mia, non hanno manco trovato posto a sedere? Ma c’ero ed ero, lo ribadisco, molto rispettoso del momento e della situazione a cui stavo partecipando. Gente, in quella piccola chiesa, che aveva fatto anche un paio d’ore di macchina per arrivare al cospetto del Don Qualcosa e aspirare ad un suo gesto, una sua carezza, un suo prodigio. Tutta gente che ne ha bisogno, per sé o per altri. Gente con in mano la foto di qualcuno. Emissari, li chiamerei. Me li immagino questi emissari. Magari, in qualche caso, ho pure idea che possano essere più atei e razionali di me, chissà. Me li immagino comunque da qualche parte, nelle loro case, negli ospedali, nei posti in cui si soffre, farsi forza e dire ai loro cari, quasi in ultima istanza… “ok, datemi una foto, vado io da Don Qualcosa e vediamo che succede. Voi state qui”.
   Io, con chi avevo accompagnato, grazie alla levataccia del mattino, ero in seconda fila, seduto su una panca sul lato destro rispetto all’altare. Il Don ed il codazzo di body-guards inizia il suo cammino tra i fedeli. L’ostensorio, dunque l’esposizione del corpo di Cristo - parlo per i pochi ignoranti come me – è un momento di altissima solennità per i fedeli. Per me, un bastone con una teca dorata sulla sommità contenente la grande ostia che i preti mangiano al momento dell’ Eucarestia. Fatto sta che io sono rapito dal quel momento. Lo osservo, il Don. Osservo i fedeli. Mi stupisco dal vedere chi, più o meno accanto a me, comincia a soffocare il pianto. Occhi lucidi e gonfi di lacrime dappertutto. E quello stava solo iniziando il suo cammino tra la folla. Qualcuno prega. Qualcuno osserva la scena in totale e intima serenità. Io non sono da meno. Osservo, ma non con l’occhio dell’osservatore critico. Osservo anche io rapito dal momento. C’era energia, lo confesso. Io non la sento l’energia di solito. Ma li ce n’era parecchia. Il Don, scendendo dall’altare, si dirige alla propria sinistra, venendo dunque dalla nostra parte. Si avvicina a qualcuno in prima fila, davanti a me: gli si ferma davanti, vedo le sue labbra che recitano un padrenostro qualsiasi, in continuazione. Nessun tipo di contatto fisico con il qualcuno li davanti, ma il qualcuno si commuove, come se il Don fosse un’entità soprannaturale. Poi il Don prosegue, continuando a recitare incessantemente a labbra serrate quel padrenostro qualsiasi. Si avvicina a una persona nella fila centrale, alla mia sinistra: una vecchina coi capelli bianchissimi raccolti sul dietro della nuca in una elegantissima crocchia come usavano 50 anni fa. Un viso molto dolce che avevo notato al momento del “scambiatevi un segno di pace” perché la nonnina si era voltata sorridente verso di me e, raggiungendomi, mi aveva teso la mano che avevo preso ricambiando il gesto e stringendola con affetto. La vecchina, comunque, lo guarda e pure lei recita quel padrenostro qualsiasi a occhi chiusi, all’unisono col Don. Nessun contatto tra i due. La gente, come quando passa il Papa, tenta di pararsi innanzi, per toccare, essere toccata. Ecco perché il Don ha quei due o tre guardaspalle che lo precedono e lo seguono. D’improvviso, eccomelo davanti. Ha oltrepassato di parecchio la comune distanza di rispetto intima. Sarà a 30 centimetri da me. Non mi infastidisce, figuriamoci. Tutti mi guardano. Lo vedo e lo sento. Qualche centinaio di occhi che mi osservano. Io non so che dire, comunque, non so come comportarmi. Non ho idea di quale fosse quel padrenostro che tutti recitavano insieme al Don. Subisco, direi così, la sua presenza. Mi guarda, ma in effetti ha gli occhi socchiusi. L’ostensorio è li davanti a me, con quella vetrinetta in cima. Io guardo l’ostia, il corpo di Cristo. Forse ho iniziato - senza rendermene conto – a recitare un Padre Nostro vero. Poi alza una mano e me la posa sulla fronte. Continuo a sentirmi gli occhi di tutti addosso. Mi guardano come se fossi un fortunato, un prescelto. Una mano calda. Morbida, asciutta e calda. La appoggia alla mia fronte e la tiene li… uno.. due… tre… quattro… non so quanto ce l’ha tenuta. Bisbigliava. Pregava. Intercedeva, forse. E io ero imbarazzato per un verso ma dall’altro gioivo in segreto perché quella mano era sulla mia fronte. Perché me? I pensieri mi si ingorgavano in testa e l’unica conclusione a cui arrivavo era che il Don sentiva che ne avevo bisogno. Roba da toccar ferro, se ci pensate bene. Ma rimanevo li. Sentivo il palmo della sua mano e volevo che non la togliesse. Io, ateo, curioso di vedere i prodigi, un San Tommaso dei nostri giorni, mi viene da dire. Eccomi li, con gli occhi gonfi di lacrime. Il Don stacca la mano e gesticola un segno della croce a mezz’aria. Me lo faccio pure io, non si sa mai. Il Don prosegue il suo piccolo pellegrinaggio tra i fedeli incamminandosi verso il fondo della chiesa. La mano l’ha appoggiata a non più di altre sei, sette, otto persone al massimo. Ecco perché mi guardavano tutti come fossi un prescelto. 

   Alle mie spalle, nella fila di centro, a metà chiesa, una coppia mia coetanea. Lui magrissimo, occhialini, capelli corti. Lei bassina, biondina. In estasi, entrambi. Piangevano, e manco li aveva sfiorati. Piangevano, e manco gli si era avvicinato anzi, li aveva sorpassati. Sembravano in cerca di un miracolo. Ho pensato che forse davvero ne avevano bisogno, che ne so: un figlio piccolo che sta molto male, una madre in fin di vita, un fratello in coma irreversibile. Mi si sono disegnate davanti scene apocalittiche nella famiglia dei due. Ho pensato che quel loro pianto fosse di vera disperazione. Per un attimo, lo giuro, per un attimo ho pregato. Ho pregato che quel mio contatto col Don, se mai avesse dovuto avere un qualsivoglia effetto benefico su di me, che arrivasse invece a quel giovane magro e con gli occhialini o alla persona per cui lui era li a pregare. Insomma, gli cedevo gratuitamente il bene in cui io tutto sommato non credevo e che invece lui aspettava di ricevere. Ne avrà più bisogno, ho pensato, meglio a lui che a me. Uscendo dalla chiesa, zitto zitto, mi sono avvicinato a quel giovane. Ho trovato il modo di sfiorarlo con una mano. E con quel contatto ho suggellato il passaggio fisico di ogni bene che quel Don, forse, mi aveva mandato.

   Questo, forse, pur nella sua pochezza, pur nella sua assoluta e totale mancanza di significato per i più, per i molti forse, è stato uno dei pochi gesti di altruismo profondo e vero che io abbia mai avuto negli ultimi tempi. Regalare quel contatto con il Don a chi ne aveva più bisogno. Che qual piccolo gesto, quel contatto, abbia già fatto il suo effetto? Lo spero.
Io, nel frattempo, ho perso il lavoro.

ps.
Il Don Qualcosa, ovviamente, ha un nome. Don Roberto Peruzzi.
La chiesetta del Tal Posto è la Chiesa di Sant’Ilario a Montereggi, bellissimo posto vicino a Fiesole, Firenze.